
Che un’immagine valesse più di mille parole era cosa nota… stupisce ancora, tuttavia, l’entità dell’impatto avuto da questa foto, in particolare, sul pubblico e sulla storia.
Certo, il fotoreporter era Joe Rosenthal (avete presente il premio Pulitzer?), lo scatto finì sui francobolli e servì come modello al governo americano per una statua celebrativa dell’evento, ma resta comunque un fatto: il momento immortalato nella foto, entrato così prepotentemente nella storia, della storia non è parte. La foto assunta a simbolo della vittoria è infatti clamorosamente ed innegabilmente un falso.
Successe infatti che la bandiera venisse issata dai soldati, lassù, visibilissima da tutti, tra applausi generali e sirene spiegate dalle navi ormeggiate. Successe che il politico di turno volesse assolutamente quella bandiera per sfruttarla a scopi propagandistici e che il capitano della compagnia, che aveva versato sudore e sangue per arrivare lassù, volesse tenerla per se. La fece sostituire. Venne così issata la nuova “falsa” bandiera con il fotografo che riprendeva l’evento.
Da qui partì la macchina propagandistica tra un intrico di verità, messinscene e marketing patriottico che vide coinvolti in qualità di eroi, 3 dei 6 soldati, scaraventati prima in trincea, poco più che ragazzi, strumentalizzati ed abbandonati al proprio destino poi.
I veri protagonisti non sono quei 3 poveri ragazzi vittime ignare del mondo che hanno attorno e che non hanno scelto, ma i finanziatori della guerra, i manovratori della macchina propagandistica, capaci di creare eroi laddove esisteva solo un disperato tentativo di salvare la propria vita e magari anche quella dei compagni. Tutto ciò, a noi cinici quarantenni dalla pelle dura, poco sorprende. Sorprende invece che tutto ciò esistesse già allora; che anche al tempo, lontani anni luce da tv satellitare ed internet, esistessero uomini in grado di mistificare cifre e situazioni.
Ancor più sorprende che l’osservatore che con occhio così lucido e distaccato racconta episodi di storia e finzione sia proprio quel Clint Eastwood, fiero repubblicano da sempre, che non ha mai lesinato il suo sostegno ad un certo tipo di politica. E’ ancora più viva quindi, l’ammirazione per un patriota (perché non dimentichiamo che Eastwood la guerra l’ha fatta veramente), che nonostante l’età non ha mai smesso di interrogarsi sulle pieghe della storia e su quanto gli accade attorno.
Non c’è nulla di positivo nell’essere soldati, sembra dire Eastwood, a Iwo Jima come in Iraq; tutto ciò che si ottiene è un esercito di morti, spesso senza nome, sempre fatto di corpi maciullati, smembrati o crivellati come ci mostra con un iperrealismo per buona parte del film, quasi a volerci ricordare che la guerra è fatta di sangue e morte e non di immagini di patinata onnipotenza.